«Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia; ci guardava con
occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e
allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano
sul verde del prato o nell’azzurro del cielo, li seguiva con uno
sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava
ribellarsi, non osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva
carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano
bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la
sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera
capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non
voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare
tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva
inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l’ala e l’indomani fu
trovata stecchita nella sua prigione.
Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era
morta perché in quel corpicino c’era qualche cosa che non si nutriva
soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.
Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del
povero uccelletto, mi narrò la storia di un’infelice di cui le mura del
chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l’amore
avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano
inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva
amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o
di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore
ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo
attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava
tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l’ala ed
era morta.
Ecco perché l’ho intitolata: Storia di una capinera. »
Ed eccomi qua con l'appuntamento del Venerdì, che purtroppo non riesco a regolarizzarlo settimanalmente perchè spesso mi perdo a guardare film ;-).
Comunque, bando alle ciance e passiamo a descrivere questo romanzo Verghiamo...
Fonte web |
Storia di una Capinera, di cui Zeffirelli ha fatto il film (ma Vi consiglio prima di leggere il libro), è un romanzo epistolare di G. Verga dove, la diciannovenne Maria racconta un anno della sua vita alla sua amica Marianna.
Maria è rinchiusa in convento dall'età di 7 anni dopo che, la morte della madre e le condizioni non proprio ricche del padre, l'hanno destinata alla vita di clausura.
Quando a seguito di un'epidemia di colera Maria da Catania torna nella casa del padre a Monte Ilice, già sposato con una nobil donna e con due figli, li Maria incontrerà l'Amore.
Non l'Amore per Dio come presumeva all'inizio, ma l'Amore per Nino Valentini, vicini di casa di Maria, destinato però in sposa alla sorella Giuditta.
Dopo una serie di incontri, passeggiate con la famiglia, feste di ballo, Maria rivelerà a se stessa ciò che lei chiama il suo "peccataccio", ovvero aver tradito Dio ed essersi innamorata di Nino.
Nino con il passare del tempo ricambierà l'affetto di Maria, ma la ragazza sarà comunque destinata dalla madre adottiva alla clausura, facendo quindi ammalare Maria di depressione e mal di cuore.
Una volta presi i voti Maria si affaccia sul belvedere del convento e da lontano scova Nino con la sorella in teneri approcci nella loro nuova casa. Sarà a quel punto che Maria cadrà in preda al delirio e verrà "internata" nella cella di Suor Agata "La Pazza", solo che Maria pazza non è. Maria è solo innamorata.
Il romanzo si chiude nel più tragico dei modi con una lettera spedita all'amica Marianna da parte della madre superiora del convento.
Come sempre i romanzi del Verga sono pieni del cosiddetto "Verismo" Italiano, una corrente letteraria tardo-romantica, solitamente raccontata in terza persona con senso quasi distaccato e dalla narrazione puramente oggettiva.
Ciò che traspare da questo romanzo sono principalmente la situazione meridionale e la questione delle donne dell'epoca: destinate al monachesimo solo perchè cadute in disgrazia economica.
Ciò che colpisce di Maria è il suo scoprirsi innamorata del bel Nino e l'angoscia e l'amarezza, che sfocerà poi nella depressione (o mal d'amore), per l'impossibilità di poter vivere appieno l'Amore, e così la Sua stessa Vita. La vita di clausura fatta dell'Amore di Dio non la ripaga della perdita e della mancata possibilità di star con l'uomo che ama.
Un'ingiustizia la chiamerebbe qualcuno. Una realtà presente ancora oggi in molti paese del Mondo.
Resta il fatto che il Verga era, è e rimarrà uno dei più grandi novellieri italiani.
V.
Il romanzo si chiude nel più tragico dei modi con una lettera spedita all'amica Marianna da parte della madre superiora del convento.
Come sempre i romanzi del Verga sono pieni del cosiddetto "Verismo" Italiano, una corrente letteraria tardo-romantica, solitamente raccontata in terza persona con senso quasi distaccato e dalla narrazione puramente oggettiva.
Ciò che traspare da questo romanzo sono principalmente la situazione meridionale e la questione delle donne dell'epoca: destinate al monachesimo solo perchè cadute in disgrazia economica.
Ciò che colpisce di Maria è il suo scoprirsi innamorata del bel Nino e l'angoscia e l'amarezza, che sfocerà poi nella depressione (o mal d'amore), per l'impossibilità di poter vivere appieno l'Amore, e così la Sua stessa Vita. La vita di clausura fatta dell'Amore di Dio non la ripaga della perdita e della mancata possibilità di star con l'uomo che ama.
Un'ingiustizia la chiamerebbe qualcuno. Una realtà presente ancora oggi in molti paese del Mondo.
Resta il fatto che il Verga era, è e rimarrà uno dei più grandi novellieri italiani.
V.
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